Scrivevo altrove: “Buddhisti potete essere un po’ più sintetici?
Che ogni volta che citate un insegnante mettete due o tre trattamenti o titoli, due nomi, una scuola e un lignaggio e la cosa ha perso quel sapore tolkeniano per somigliare sempre di più alle battute di Aldo, Giovanni e Giacomo.”
Chiamavo il mio maestro di Judo Umberto, fino a che lui non mi spiegò con garbo che chiamarlo maestro era funzionale, serviva più agli altri che a noi.
Poi col tempo capii che serviva più a me che a lui.
Fatto sta che dai miei allievi (parlo sempre di Judo) mi piace essere chiamato così, fino a correggerli se necessario o smettere di avere rapporti con loro se, una volta ex-allievi, ritengono io diventi all’improvviso Alfredo.
Significa che non gli ho spiegato bene la questione, ma anche che loro non hanno fatto un piccolo sforzo per crescere (facendosi anche piccoli se serve).
In generale mi piace mi si dia del tu, piccoli, grandi, allievi, genitori…discenti o persone che condividono con me l’onere dell’educazione di questi, non concepisco la distanza in queste cose.
Se si ha rispetto lo si ha e basta, si vede, si tocca. Col tu o con il lei se qualcuno mi manca di rispetto mi “impazzo” (come dico ai miei piccolini, che poi quando crescono capiscono).
Nella mia storia buddhista la cosa è più articolata, ma presto mi sono adattato ad un criterio che penso sia valido: ti chiamo come ti pare.
Nomi di Dharma (che a volte si affastellano nel tempo) poi messi prima, dopo, in mezzo? Maestri o maestri, Reverendi o Venerabili…un impiccio che spesso mette in crisi pure gli stessi interessati, nel desiderio di farsi definire, ma più spesso di definirsi. Giuro che ce la metto tutta, pure se il maestro Taino, che tanto mi ha insegnato, deprecava le collezioni di Kaimyo (戒名) e pure se la regola del Monastero prevedeva l’uso del lei e il trattamento di Maestro, non l’ho mai sentito scandalizzarsi quando qualcuno dei più anziani lo chiamava Giggi e gli dava del tu, bisogna tenere anche conto delle storie personali.
Dal canto mio, ho sempre gradito il tu e, per le frequentazioni di Dharma, il mio nome dei Precetti; diceva (anzi più o meno scriveva) sempre Taino: “Non capisco che fatica faccia la gente ad usare il nome che rappresenta il percorso di ricerca che ho intrapreso”. Vagli a dar torto.
Invece se qualcuno mi chiama maestro non mi scandalizzo certo, ma la sento quasi una violazione dell’intimità, mi piacerebbe restasse qualcosa per relazioni speciali, faccio pure fatica a spiegarlo.
A volte qualcuno che non conosco mi scrive e mi da impunemente del maestro, insomma se non è sincero ci metto poco a smascherarlo.
Tutto questo comunque al netto dei grandi fraintendimenti di cui ho scritto e scriverò ancora, la confusione che si fa fra titoli e trattamenti, l’imbarazzante moda di autodefinirsi e tanto altro.
Ma il rispetto quello no, quello sento sia necessario darlo e anche pretenderlo…io altrimenti mi impazzo!